Onorevoli Deputati! - L'articolo 10 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, e successive modificazioni, attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per le politiche europee il potere di proposta di provvedimenti normativi, anche urgenti, necessari a fare fronte ad atti normativi o a sentenze che comportino obblighi statali di adeguamento, allorquando la scadenza di tali obblighi risulti anteriore alla presunta data di entrata in vigore della legge comunitaria relativa all'anno in corso.
      Come previsto dalla citata legge n. 11 del 2005, il Governo - fin dal suo insediamento - ha ritenuto di affiancare lo strumento della decretazione d'urgenza a quello ordinario della legge comunitaria al fine di attuare l'adeguamento dell'Italia agli obblighi comunitari. Infatti, mentre il disegno di legge comunitaria viene presentato alle Camere all'inizio di ogni anno prevalentemente allo scopo di conferire la delega al Governo per la trasposizione delle direttive comunitarie pubblicate nell'anno precedente, l'adozione di provvedimenti d'urgenza è finalizzata alla risoluzione delle procedure di infrazione per le quali il mancato adeguamento in tempi brevi preluda alla certa condanna pecuniaria.
      Dopo un primo intervento con il decreto-legge 27 dicembre 2006, n. 297, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2007, n. 15, anche nello scorso anno il Governo ha ritenuto necessario impiegare questo utile strumento e ha emanato il decreto-legge 15 febbraio 2007, n. 10, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 2007, n. 46, con il quale si è posto rimedio a ben nove procedure di infrazione. Grazie a queste e ad altre misure - ad esempio la modifica del regolamento interno del Consiglio dei Ministri (cosiddetta «bollinatura comunitaria») disposta con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 settembre 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 213 del 13 settembre 2007 - nonché al grande impegno profuso da tutte le amministrazioni per rafforzare l'attività di attuazione delle direttive, è stato possibile conseguire una sensibile riduzione del numero delle procedure di infrazione che, per la prima volta dal 2002, è sceso al di sotto della soglia delle 200, con una riduzione complessiva di circa 80 unità dall'insediamento del Governo. Inoltre, nell'ultimo Internal Market Scoreboard della Commissione europea (n. 16-bis del 14 febbraio 2008), si è registrato il miglior risultato mai raggiunto dall'Italia, riducendo fino all'1,3 per cento il deficit di trasposizione della normativa comunitaria.
      Al contempo, con l'obiettivo di confermare e migliorare gli ottimi risultati già

 

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raggiunti, è proseguita l'attività di individuazione di proposte di interventi normativi idonei a porre rimedio ad altre procedure di infrazione, tutte verificate con i competenti uffici della Commissione europea e confluite in un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 novembre 2007 (atto Camera n. 3435).
      Sostanzialmente l'intento è stato quello di creare un sistema binario affiancando all'ordinario strumento di adeguamento dell'ordinamento interno agli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee, cioè la legge comunitaria annuale, che si ritiene debba essere un veicolo snello e il più possibile veloce per garantire il celere recepimento delle direttive comunitarie, un altro strumento normativo che consenta di intervenire anche successivamente, per sanare appunto le infrazioni comunitarie in corso.
      A causa dell'anticipato scioglimento delle Camere e nell'impossibilità di proseguire l'iter ordinario del disegno di legge, numerosi interventi già annunciati alle istituzioni comunitarie e indispensabili per non incorrere in ormai imminenti e onerose sanzioni economiche, prima di essere inseriti nel presente provvedimento, erano stati proposti come emendamenti al disegno di legge comunitaria 2007 (ora legge 25 febbraio 2008, n. 34), ma successivamente ritirati al fine di consentire l'entrata in vigore del provvedimento prima dell'inizio della prossima legislatura, evitando altresì la reiterazione dell'iter di approvazione.
      Per tre delle procedure di infrazione in questione, poi (mancato recupero degli aiuti di Stato a società municipalizzate e degli aiuti di Stato a favore dell'occupazione, nonché mancato recepimento della direttiva quadro 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, per l'azione comunitaria in materia di acque), la Commissione europea ha già annunciato l'imminente ricorso presso la Corte di giustizia delle Comunità europee ai sensi dell'articolo 228 del Trattato istitutivo della Comunità europea, e successive modificazioni (TCE).
      Senza un immediato intervento legislativo che eviti tale ricorso l'Italia rischia, per ciascuna delle tre procedure di infrazione indicate, la condanna al pagamento di una somma forfetaria minima di 9.920.000 euro, oltre ad una penalità di mora compresa tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nell'attuazione della seconda sentenza. Ormai, infatti, una volta introdotto il ricorso, la Commissione europea non procede più al ritiro dello stesso anche in caso di adeguamento tardivo dello Stato inadempiente.
      Pertanto, ancor più in questo frangente, sussistono i presupposti costituzionali di necessità ed urgenza per l'esercizio del potere di decretazione da parte del Governo che, pur dimissionario, resta impegnato nel disbrigo degli affari correnti e nell'esame degli atti normativi imposti da obblighi internazionali e comunitari. Tali presupposti, che evidentemente si collegano, in via generale, agli obblighi sopranazionali di adeguamento del diritto interno, che si impongono a norma degli articoli 117 e 11 della Costituzione, si evidenziano, altresì, in relazione alle particolari esigenze sopra esposte e che saranno via via illustrate trattando dell'articolato.

Articoli 1 e 2.

      Gli articoli 1 e 2 sono volti ad agevolare l'adempimento da parte del Governo dell'obbligo di recuperare gli aiuti di Stato concessi in violazione dell'articolo 88, paragrafo 3, del TCE, e quindi illegittimi, dichiarati incompatibili con il mercato interno da una decisione della Commissione europea.
      La mancata esecuzione di queste decisioni nei tempi indicati dalla Commissione europea comporta il deferimento dello Stato membro alla Corte di giustizia delle Comunità europee, ai sensi dell'articolo 88, paragrafo 2, del TCE, affinché questa sancisca, con una prima sentenza di condanna, l'inadempimento dello Stato destinatario della decisione ai sensi dell'articolo 249 del TCE. A seguito di una prima condanna, qualora lo Stato non completi

 

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rapidamente le operazioni di recupero, la Commissione europea può aprire una procedura di infrazione ai sensi dell'articolo 228 del TCE, all'esito della quale sono comminate allo Stato inadempiente pesantissime sanzioni pecuniarie.
      Le operazioni di recupero, cui le pubbliche amministrazioni sono tenute per adempiere alle cosiddette «decisioni di recupero» della Commissione europea, sono di norma alquanto complesse, per la necessità di individuare correttamente sia un ampio numero di beneficiari, sia l'importo dovuto da ciascuno di questi. A tale proposito l'articolo 14, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, stabilisce che le decisioni di recupero della Commissione europea siano eseguite in base alle procedure nazionali applicabili, a condizione però che esse consentano l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. La necessità di dare attuazione immediata a tali decisioni è implicita nella finalità stessa dell'ordine di recupero, il quale mira ad eliminare l'indebito vantaggio concorrenziale derivante a un'impresa dalla concessione di aiuti illegittimi e incompatibili, ripristinando le condizioni di mercato precedenti a tale concessione.
      Il tempo impiegato per individuare i beneficiari e gli importi da recuperare da ciascuno di essi ha condotto all'aggravamento delle procedure di infrazione n. 2006/2456 «municipalizzate» e n. 2007/2229 «aiuti concessi per interventi a favore dell'occupazione», per le quali l'Italia è già stata condannata con due pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee.
      Per la procedura «municipalizzate», la prima pronuncia di condanna da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee risale al giugno 2006 e sancisce l'inadempimento quadriennale alla decisione n. 2003/193/CE della Commissione, del 5 giugno 2002.
      La prima condanna nell'ambito della procedura «aiuti concessi per interventi a favore dell'occupazione» risale invece all'aprile 2004 e sanziona il pluriennale inadempimento alla decisione n. 2000/128/CE della Commissione, dell'11 maggio 1999.
      Nonostante che le amministrazioni interessate abbiano attivamente proseguito le operazioni di recupero già avviate negli scorsi anni, l'Italia ha ricevuto nel gennaio 2008 due pareri motivati ex articolo 228 del TCE, anticamera del secondo deferimento alla Corte di giustizia delle Comunità europee e delle conseguenti sanzioni finanziarie. Le contestazioni mosse dalla Commissione europea nei suddetti pareri motivati riguardano principalmente l'adozione da parte dei competenti organi giurisdizionali nazionali di ordinanze di sospensione dei procedimenti, a seguito di ricorsi presentati dai destinatari degli ordini di recupero degli aiuti. Una volta conclusasi la complessa fase dell'individuazione dei beneficiari, appare infatti che il diritto processuale e la diffusa possibilità da questo offerta ai giudici di sospendere gli effetti esecutivi dei provvedimenti nazionali di recupero costituiscano la principale causa di rallentamento nella corretta esecuzione delle decisioni della Commissione europea. Tale situazione di stallo vanifica di fatto il lavoro compiuto dalle amministrazioni interessate, sottoponendo lo Stato nel caso delle due procedure di infrazione sopra menzionate al concreto e imminente rischio di sanzioni pecuniarie per mancata esecuzione delle sentenze di condanna della Corte di giustizia delle Comunità europee sopra ricordate.
      Le due norme in esame si rendono quindi necessarie al fine sia di agevolare i procedimenti di recupero attualmente sospesi dinanzi ai competenti organi giurisdizionali, sia in via più generale per conformare il diritto processuale nazionale applicabile anche in futuro ai casi di recupero di aiuti di Stato in attuazione di decisioni della Commissione europea ai requisiti di immediatezza ed effettività previsti dal diritto comunitario. Nella recente pronuncia resa nella causa C-232/05, Commissione europea contro Francia (sentenza del 5 ottobre 2006), la Corte di giustizia delle Comunità europee ha sottolineato
 

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a tale proposito l'importanza che la dimensione temporale assume nei procedimenti di recupero, evidenziando che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare il diritto processuale nazionale qualora questo non soddisfi i requisiti previsti dall'articolo 14, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 659/1999.
      A fronte dell'incertezza giuridica che potrebbe derivare da singoli casi di disapplicazione del diritto processuale nazionale, si rende quindi necessario un intervento legislativo che, seppure nel rispetto delle specificità del processo civile e di quello tributario, disciplini in maniera analoga i presupposti per la concessione di provvedimenti cautelari di sospensione dell'efficacia esecutiva degli atti adottati dalle autorità nazionali per eseguire una decisione di recupero della Commissione europea. L'articolo 1 del decreto-legge riguarda i procedimenti dinanzi agli organi di giustizia civile, mentre l'articolo 2, novellandone la disciplina prevista nel decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, si rivolge al processo tributario.
      Nell'ambito del processo civile, il comma 1 dell'articolo 1 definisce i presupposti sostanziali per la concessione dei provvedimenti di sospensione cautelare degli atti e delle procedure di recupero, richiedendo la ricorrenza delle seguenti condizioni: a) gravi motivi di illegittimità della decisione comunitaria di recupero ovvero evidente errore sul soggetto tenuto alla restituzione o nel calcolo degli importi da recuperare; b) periculum in mora consistente nel pregiudizio imminente e irreparabile.
      Il comma 2, in attuazione di consolidata giurisprudenza comunitaria (si vedano, da ultimo, la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee - Prima sezione - 5 ottobre 2006, resa nella causa C-232/05, e la giurisprudenza richiamata dalla comunicazione n. 2007/C 272/05 della Commissione «Verso l'esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli Stati membri di recuperare gli aiuti di Stato illegali e incompatibili», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea n. C 272/4 del 15 novembre 2007), prevede che qualora a fondamento del provvedimento che accoglie l'istanza cautelare sia posta l'illegittimità della decisione di recupero della Commissione europea, il giudice sospende il giudizio e provvede all'immediato rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di giustizia delle Comunità europee, ai sensi dell'articolo 234 del TCE, con contestuale richiesta di trattazione d'urgenza ai sensi dell'articolo 104-ter del regolamento di procedura della Corte di giustizia del 19 giugno 1991, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. L 176 del 4 luglio 1991, e successive modificazioni, salvo che la medesima questione non sia già pendente innanzi al giudice comunitario. La sospensione cautelare non potrà essere concessa qualora l'istante, pur avendone facoltà, poiché individuata o chiaramente individuabile (si veda, da ultimo, la recentissima sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 13 marzo 2008, resa nella causa C-125/06), non abbia impugnato la decisione di recupero della Commissione europea, ai sensi dell'articolo 230 del TCE, ovvero non abbia esperito i rimedi previsti dall'articolo 242 del TCE, oppure quando, pur avendo esperito i suddetti rimedi, essi non abbiano trovato accoglimento presso il giudice comunitario.
      I commi 3 e 4 mirano a realizzare la massima concentrazione processuale al fine di consentire una rapida definizione nel merito delle controversie, conformando così ai requisiti di immediatezza ed effettività previsti dall'articolo 14, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 659/1999 il diritto processuale applicabile al contenzioso relativo al recupero degli aiuti di Stato.
      In particolare, il comma 3 prevede che con il provvedimento di accoglimento della domanda cautelare il giudice fissi l'udienza di discussione nel merito entro trenta giorni dall'emanazione del provvedimento. La causa dovrà essere decisa nei successivi sessanta giorni. Decorsi novanta giorni dall'emanazione del provvedimento cautelare, la sospensione perde efficacia, ma è ammessa la sua conferma da parte
 

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del giudice, su istanza di parte, ove ricorrano i presupposti di cui ai commi 1 e 2. In tale caso il giudice fissa un termine di efficacia della misura confermata non superiore a sessanta giorni.
      Il comma 4, nella medesima ottica acceleratoria, prevede, per i giudizi di merito, l'applicazione del rito di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, che è concentrato, tendenzialmente, in un'unica udienza.
      Il comma 5 detta la disciplina intertemporale, prevedendo che l'articolo si applichi anche ai giudizi pendenti, salvo per quanto disposto dal comma 4 in relazione al mutamento del rito. È espressamente disciplinata l'ipotesi in cui alla data di entrata in vigore del presente decreto la procedura di recupero risulti sospesa per effetto dell'emanazione di un provvedimento cautelare. In tale caso, al fine di sbloccare le procedure di recupero, si prevede che la causa sia decisa nei termini di cui al comma 3, previa eventuale anticipazione dell'udienza di trattazione già fissata. Il giudice, su istanza di parte, riesamina il provvedimento di sospensione già concesso e ne dispone la revoca qualora non ricorrano i presupposti di cui ai commi 1 e 2.
      Il comma 6 affida al presidente di sezione o, per i tribunali non divisi in sezioni, al presidente del tribunale il compito di vigilare sul rispetto dei termini di cui al comma 3 e di riferire con relazione trimestrale al presidente del tribunale o della corte d'appello per le determinazioni di competenza.
      Con l'articolo 2 è novellato il decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 («Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413») attraverso l'introduzione di un apposito articolo (articolo 47-bis), recante la disciplina speciale della sospensione cautelare degli atti volti al recupero di aiuti di Stato dichiarati incompatibili con il diritto comunitario e della definizione nel merito delle relative controversie.
      In maniera analoga a quanto descritto per l'articolo 1, i commi 1 e 2 del nuovo articolo 47-bis limitano i casi di sospensione dei titoli di pagamento alle ipotesi di evidente errore nella individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell'aiuto o di evidente errore di calcolo della somma da recuperare, oltre che alle ipotesi di contestazione della legittimità della decisione comunitaria di recupero nei limiti previsti dai princìpi consolidatisi nell'ordinamento comunitario. Si tratta, peraltro, di princìpi già applicabili in via diretta nell'ordinamento interno: per questa via si spiega come l'istanza di sospensione dell'atto impugnato per motivi attinenti alla legittimità della decisione comunitaria presupposta non possa essere accolta in tutti i casi in cui la parte istante, pur avendone facoltà, non abbia proposto impugnazione in sede comunitaria avverso la decisione della Commissione europea che ha disposto il recupero ovvero, pur avendo proposto l'impugnazione e avendo richiesto in sede comunitaria la sospensione della decisione della Commissione, il provvedimento cautelare non sia stato concesso.
      Il comma 3 prevede l'applicazione delle disposizioni procedurali di carattere generale di cui ai commi 1, 2, 4, 5, 7 e 8 dell'articolo 47 del medesimo decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, specificando che, ai fini del mutamento delle condizioni che legittimano la revoca o la modifica del provvedimento cautelare, rilevano anche i mutamenti del diritto comunitario.
      Il comma 4, al fine di assicurare la pronta definizione delle controversie garantendo al contempo il diritto alla difesa del contribuente, prevede che le controversie siano definite nel merito nel termine di sessanta giorni dalla pronuncia dell'ordinanza di sospensione. Si prevede, inoltre, che l'ordinanza cautelare perda efficacia decorsi sessanta giorni dalla sua emanazione, salvo che, su istanza di parte, la commissione tributaria provinciale non ne disponga la conferma (entro il medesimo termine), fissandone, altresì, il termine
 

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di efficacia, che non dovrà essere superiore a sessanta giorni.
      I commi 5 e 6 dettano disposizioni procedurali relative ai giudizi di merito anch'esse volte ad accelerare la definizione del contenzioso. Si prevede che la discussione avvenga in pubblica udienza e che la delibera della decisione sia resa, in camera di consiglio, successivamente alla discussione con l'immediata lettura del dispositivo in udienza. Il deposito della sentenza deve avvenire entro quindici giorni dalla lettura del dispositivo ed essa è comunicata immediatamente alle parti.
      Il comma 7 del nuovo articolo 47-bis assicura che, nel giudizio di appello innanzi alla commissione tributaria regionale, tutti i termini, ad eccezione di quello per la proposizione del ricorso, siano ridotti della metà. Anche nei giudizi di appello si applicano le disposizioni di cui ai commi 4, terzo e quarto periodo, 5 e 6.
      Fuor di novella, con il comma 2 dell'articolo 2 viene disciplinata l'applicazione dei princìpi di cui all'articolo 47-bis, introdotto dal comma 1 dello stesso articolo, ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge.
      Il comma 3, onde garantire l'effettiva applicazione delle norme introdotte, stabilisce che il presidente del collegio, in ogni grado del procedimento, vigila sul rispetto dei termini introdotti dalla disposizione di cui al comma 2 e dei commi 4 e 7, primo periodo, dell'articolo 47-bis e riferisce con relazione trimestrale, rispettivamente, al presidente della commissione tributaria provinciale e della commissione tributaria regionale per le determinazioni di competenza.
      Il comma 4 sopprime l'ultimo periodo del comma 2 dell'articolo 1 del decreto-legge 15 febbraio 2007, n. 10, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 2007, n. 46, che prevedeva una disciplina speciale per il recupero degli aiuti condotto in esecuzione della decisione n. 2003/193/CE.

Articolo 3.

      La Commissione europea, a seguito della sentenza emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee il 12 gennaio 2006 per mancato recepimento della direttiva 2000/60/CE, ha avviato una seconda procedura, ex articolo 228 del TCE, arrivata allo stadio di parere motivato, in quanto ha ritenuto incompleto il provvedimento adottato per dare esecuzione alla citata sentenza della Corte di giustizia. Secondo la Commissione europea il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, e successive modificazioni, con il quale è stata formalmente trasposta la direttiva, non prevede, infatti, disposizioni di recepimento dei paragrafi 4, 5 e 7 dell'articolo 4 della direttiva in questione.
      Al fine di ottemperare alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee si rende, pertanto, necessario modificare l'articolo 77 del decreto legislativo n. 152 del 2006, e, più specificamente, sostituire i commi 6 e 7 e introdurre, dopo il comma 10, un nuovo comma 10-bis.

Articolo 4.

      In questo articolo sono contenute modifiche al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni.
      In particolare, le disposizioni di cui al comma 1 riguardano la materia del recupero stragiudiziale di crediti. Come è noto, con sentenza del 18 luglio 2007, nella causa C-134/05, la Corte di giustizia delle Comunità europee, in parziale accoglimento delle contestazioni mosse dalla Commissione europea contro l'Italia, ha ritenuto in contrasto con il TCE e con i princìpi in esso contenuti agli articoli 43 e 49 il fatto di:

          a) «chiedere, benché l'agenzia disponga di una autorizzazione rilasciata dal questore di una provincia, una nuova autorizzazione in ognuna delle altre province ove essa intenda svolgere le sue attività» (limitazione dell'attività in ambito provinciale);

          b) obbligare l'agenzia a «disporre di locali nel territorio oggetto dell'autorizzazione

 

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ed affiggervi le prestazioni che possono essere effettuate per i clienti» (obbligo di munirsi di una sede, con il connesso obbligo di affissione delle prestazioni consentite);

          c) obbligare l'agenzia a «disporre di un locale in ogni provincia in cui essa intenda svolgere la sua attività» (obbligo di munirsi di una sede in ogni provincia).

      Essendo, quindi, necessario provvedere tempestivamente all'adeguamento del diritto interno alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, la lettera a) del comma 1 dell'articolo 4 prevede anche procedure alternative di adempimento degli obblighi di informazione del cliente e di esibizione degli atti agli organi di controllo. L'intervento normativo non incide sulle disposizioni vigenti in materia di protezione dei dati personali e di prevenzione dei reati, con particolare riguardo alla prevenzione del riciclaggio di capitali di provenienza illecita, che non solo non sono state oggetto di censura da parte della Corte di giustizia, ma sono state adottate, come è noto, in esecuzione di specifiche direttive europee.
      Le disposizioni di cui alle lettere b) e c) del medesimo comma 1 recano modifiche alle norme in materia di vigilanza privata contenute nel citato testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto n. 773 del 1931.
      Infatti, a seguito di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee, decidendo la causa C-465/05 (Commissione europea contro Repubblica italiana), ha tra l'altro statuito che la normativa italiana recante l'ordinamento della vigilanza privata e, in particolare, alcune disposizioni del citato testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (articoli da 133 a 141), sono in contrasto con gli articoli 43 e 49 del TCE, concernenti, rispettivamente, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi.
      Segnatamente, il giudice europeo ha stabilito che avendo disposto, nell'ambito del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, così come modificato, che:

          1) (punto 2 del dispositivo): «l'attività di vigilanza privata possa essere esercitata dai prestatori di servizi stabiliti in un altro Stato membro solo [previo] rilascio di un'autorizzazione del Prefetto con validità territoriale, senza tenere conto degli obblighi cui tali prestatori sono già assoggettati nello Stato membro di origine, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa derivanti dall'articolo 49 CE»;

          2) (punto 3 del dispositivo): «la detta autorizzazione abbia una validità territoriale limitata ed il suo rilascio sia subordinato alla considerazione del numero e dell'importanza delle imprese di vigilanza privata già operanti nel territorio in questione, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa derivanti dagli articoli 43 CE e 49 CE»;

          3) (punto 6 del dispositivo): «le imprese di vigilanza privata debbano utilizzare un numero minimo e/o massimo di personale per essere autorizzate, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa derivanti dagli articoli 43 CE e 49 CE»;

          4) (punto 8 del dispositivo): «i prezzi per i servizi di vigilanza privata siano fissati con autorizzazione del Prefetto nell'ambito di un determinato margine d'oscillazione, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa derivanti dall'articolo 49 CE»;

          5) (punto 5 del dispositivo): «il personale delle suddette imprese debba essere individualmente autorizzato ad esercitare attività di vigilanza privata, senza tenere conto dei controlli e delle verifiche già effettuati nello Stato membro di origine, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa derivanti dall'articolo 49 CE».

      La modifica normativa proposta alle lettere d), e), f) e g) del comma 1 tende

 

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appunto a uniformare le vigenti disposizioni degli articoli 135 e 136 del citato testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto n. 773 del 1931, ai richiamati punti 3, 6 e 8 del dispositivo della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee; inoltre, per aderire ai punti 2 e 5 dello stesso dispositivo, si è ritenuto di intervenire introducendo l'articolo 134-bis e aggiungendo nuovi commi al vigente articolo 138 del medesimo testo unico.
      Più in dettaglio, il comma inserito nell'articolo 134, in relazione alla struttura organizzativa complessa che potrebbero assumere gli istituti, operando in una dimensione territoriale anche nazionale, è finalizzato ad estendere gli accertamenti riguardanti l'assenza di precedenti penali e di polizia nei confronti di coloro che esercitano poteri di rappresentanza, ovvero di direzione, amministrazione o gestione dell'impresa; con l'articolo 134-bis vengono, invece, disciplinate le modalità di rilascio della licenza per l'esercizio dell'attività di vigilanza privata da parte di un'impresa legalmente autorizzata a svolgere la medesima attività in un altro Stato membro dell'Unione europea, alle medesime condizioni delle imprese e degli istituti stabiliti in Italia. Con la stessa disposizione si provvede altresì ad autorizzare il Ministro dell'interno a sottoscrivere con le competenti autorità degli altri Stati membri dell'Unione europea accordi di collaborazione e di reciproco riconoscimento dei requisiti e delle condizioni necessari per lo svolgimento dell'attività, nonché dei provvedimenti sanzionatori, cautelari e amministrativi contemplati dalle disposizioni vigenti nei rispettivi ordinamenti.
      All'articolo 135 si provvede a eliminare la previsione dell'obbligo di vidimazione della tabella delle operazioni e la conseguente approvazione delle tariffe praticate dall'istituto di vigilanza privata da parte del prefetto, con il conseguente divieto per le imprese di praticare tariffe maggiori di quelle approvate, previsione che ad avviso della Corte di giustizia delle Comunità europee contrasta con la libera circolazione dei servizi e ancora di più con i princìpi che regolano il libero mercato.
      All'articolo 136, aderendo ad analoga richiesta della Corte di giustizia delle Comunità europee, viene eliminata la previsione che il prefetto possa negare il rilascio delle licenze in considerazione del numero e dell'importanza delle imprese di vigilanza già operanti sul territorio provinciale.
      Infine, le modifiche all'articolo 138, apportate dalla lettera g) del comma 1, sono finalizzate:

          a) al numero 1): ad assicurare una maggiore professionalità delle guardie particolari giurate e a migliorarne la qualificazione;

          b) al numero 2): a introdurre una norma analoga a quella dell'articolo 134-bis, da far valere per l'approvazione della nomina delle guardie particolari giurate, già autorizzate a svolgere la medesima attività in altro Stato membro dell'Unione europea;

          c) al numero 3): al formale riconoscimento, per le guardie particolari giurate, della qualità di «incaricato di un pubblico servizio», rispondendo all'esigenza di assicurare alle stesse una difesa penale non inferiore a quella assicurata agli steward addetti agli impianti sportivi. Nei limiti e alle condizioni previsti dalla novella (deve trattarsi di guardie particolari giurate addette ai servizi di vigilanza e custodia), l'attribuzione non pare travalicare i limiti disegnati dalla legge penale, in quanto è meramente ricognitoria delle situazioni di fatto contemplate dall'articolo 358 del codice penale.

      L'intervento complessivo è finalizzato ad evitare la soccombenza dell'amministrazione nel probabile contenzioso che potrebbe essere avviato dalle imprese di vigilanza privata operanti in ambito europeo, atteso che le sentenze del giudice comunitario sono immediatamente attivabili presso il giudice nazionale e comunque impongono alla pubblica amministrazione

 

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di informare ad esse la propria azione.
      Infine, la disposizione proposta tende anche ad evitare le conseguenze negative di una eventuale condanna dello Stato italiano da parte della Commissione europea, per inottemperanza al giudicato comunitario.
      Con separato provvedimento si provvederà a completare il quadro normativo adeguando la disciplina regolamentare vigente alle determinazioni della Corte di giustizia delle Comunità europee.
      La norma non comporta oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato.

Articolo 5.

      La disposizione ha lo scopo di conformare l'ordinamento italiano all'orientamento degli organi comunitari formatosi sull'interpretazione dell'articolo 39 del TCE.
      Considerato che anche recentemente nei confronti dello Stato italiano sono state pronunciate alcune decisioni della Corte di giustizia delle Comunità europee che hanno accertato l'inadempimento agli obblighi derivanti dal TCE e dal regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, per il riconoscimento dell'esperienza professionale e dell'anzianità maturate in altri Paesi dell'Unione europea (esempio: Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 26 ottobre 2006, causa C-371/04; Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 12 maggio 2005, causa C-278/03), si rende necessario introdurre una previsione normativa espressa che sancisca la parità di trattamento per i casi in cui un cittadino comunitario abbia svolto, al di fuori del nostro territorio nazionale, un'attività lavorativa analoga a quella considerata e valutata dalle pubbliche amministrazioni italiane. L'articolo già inserito nel disegno di legge cosiddetto «salva-infrazioni» (atto Camera n. 3435), approvato dal Consiglio dei Ministri in data 16 novembre 2007, è stato anticipato fin dallo scorso novembre alla Commissione europea che, proprio in considerazione della sua imminente adozione, non ha proceduto alla notifica del parere motivato, nell'ambito della procedura di infrazione n. 2002/4888, attualmente allo stadio della messa in mora complementare ex articolo 228 del TCE, del 16 novembre 2007; infatti - come sopra ricordato - la Corte di giustizia delle Comunità europee ha già emesso al riguardo una sentenza di condanna ex articolo 226 del TCE, il 26 ottobre 2006, nella causa C-371/04.
      In sostanza, mediante la disposizione si vuole dare attuazione - oltre che all'orientamento della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee - al contenuto della comunicazione della Commissione europea COM (2002) 694 «Libera circolazione dei lavoratori - realizzarne pienamente i vantaggi e le potenzialità», dell'11 dicembre 2002. L'introduzione della disposizione in questione, infatti, determina che, laddove l'amministrazione italiana richieda quale requisito per lo svolgimento di un determinato servizio o incarico che siano possedute determinate esperienze professionali e anzianità, queste ultime sono riconosciute secondo condizioni di parità a prescindere dal Paese europeo ove le stesse sono state maturate, senza creare alcuna discriminazione. In attuazione del principio formulato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (ex multis, sentenza 18 aprile 2002, causa C-290/00, Duchon), viene altresì considerato valutabile il servizio prestato presso le amministrazioni pubbliche degli Stati membri in periodi antecedenti alla loro adesione all'Unione europea.
      La disposizione, per la quale è stata predisposta un'apposita relazione tecnica, introduce una norma di carattere generale ricognitiva di obblighi già esistenti per l'ordinamento italiano e quindi per le pubbliche amministrazioni, stante l'efficacia diretta delle disposizioni contenute nel TCE e nel regolamento (CEE) n. 1612/68. Per completezza si segnala il generale obbligo di applicare il diritto comunitario anche da parte delle autorità amministrative con disapplicazione del diritto interno eventualmente contrastante, potere/dovere di disapplicazione ormai riconosciuto dall'orientamento

 

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consolidato della giurisprudenza (Corte costituzionale, sentenze n. 389 del 1989 e n. 170 del 1984; Corte di giustizia delle Comunità europee, causa 106/77, sentenza 9 marzo 1978; Consiglio di Stato, sezione IV, n. 5194; Consiglio di Stato, sezione VI, n. 430 del 2001).
      Viene fatto salvo l'articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il quale, in aderenza alla normativa comunitaria, già prevede l'accesso dei cittadini comunitari nelle pubbliche amministrazioni, con le limitazioni ivi previste.

Articolo 6.

      L'articolo reca disposizioni dirette a risolvere alcune procedure di infrazione in materia di rifiuti.
      In particolare, le disposizioni di cui al comma 1 sono volte a superare due procedure di infrazione avviate, tra l'altro, per non corretto recepimento e mancata attuazione dell'articolo 14 della direttiva 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti. Tale articolo è stato trasposto nell'ordinamento interno dall'articolo 17 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36.
      Nella procedura di infrazione n. 2003/2077 la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 26 aprile 2007, ha statuito la mancata attuazione dell'articolo 14 della direttiva, in quanto l'Italia non ha fornito dati certi sulla chiusura delle discariche che non hanno presentato nei termini prescritti il piano di adeguamento o il cui piano è stato respinto.
      Nella procedura di infrazione n. 2003/4506, invece, allo stadio di ricorso alla Corte di giustizia delle Comunità europee (causa C-442/06), la Commissione europea contesta, tra l'altro, il tardivo recepimento della direttiva che, ai sensi dell'articolo 14, avrebbe dovuto essere trasposta entro il 16 luglio 2001, visto che il decreto legislativo di recepimento è entrato in vigore solo nel marzo 2003. Per effetto di tale ritardo non si è attribuita alle discariche autorizzate tra il 16 luglio 2001 e il 23 marzo 2003 la qualifica di discariche ex novo, che avrebbe comportato l'applicazione della nuova disciplina introdotta dalla direttiva, bensì quella di discariche preesistenti per le quali sono sufficienti la presentazione e l'approvazione di un piano di adeguamento. La Commissione europea contesta, inoltre, la mancata trasposizione di alcune disposizioni dello stesso articolo 14 della direttiva relative alle discariche per i rifiuti pericolosi, che avrebbero dovuto essere applicate nel 2002 (articoli 4, 5 e 11 della direttiva) e nel 2004 (articolo 6 della direttiva).
      Al fine, dunque, di risolvere le due predette procedure di infrazione, si rende necessario meglio precisare la portata dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 36 del 2003, introducendo una disciplina specifica (e sostanzialmente differenziata rispetto a quella prevista per tutte le altre discariche) per le discariche autorizzate tra il 16 luglio 2001 e il 23 marzo 2003 e per quelle per rifiuti pericolosi.
      In tale modo si fa venire meno il regime di generale e indistinta equiparazione tra tutte le discariche preesistenti al marzo 2003 contenuto nel decreto legislativo n. 36 del 2003, regime di equiparazione che, secondo le autorità comunitarie, si pone in contrasto con la diversa disciplina che la direttiva 1999/31/CE assegna alle discariche per rifiuti pericolosi e a quelle autorizzate prima della sua entrata in vigore.
      La modifica contenuta nel comma 2 è volta ad eliminare la definizione di «apparecchiature elettriche ed elettroniche usate» prevista all'articolo 3, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151, con il quale sono state recepite nell'ordinamento interno le direttive 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE, relative alla riduzione dell'uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché allo smaltimento dei rifiuti elettrici. Tale modifica è necessaria al fine di risolvere una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea in quanto la definizione, non contemplata dalla direttiva 2002/96/CE e introdotta nella normativa nazionale dal citato decreto legislativo n. 151 del 2006, opera un indebito restringimento del

 

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campo di applicazione della stessa direttiva, nonché, conseguentemente, della direttiva 2006/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, sui rifiuti.
      Per effetto di tale previsione, infatti, le apparecchiature elettriche ed elettroniche che il detentore consegna al distributore all'atto dell'acquisto di un apparecchio equivalente non sono rifiuti, bensì apparecchiature usate, spettando al distributore che le riceve decidere successivamente se le stesse siano o meno rifiuti.

Articolo 7.

      Le modifiche al decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, recante attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso, proposte nel presente articolo sono necessarie ed urgenti per dare esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 24 maggio 2007 nella causa C-394/05. In tale sentenza la Corte di giustizia ha statuito il non corretto recepimento degli articoli 3, paragrafo 5, 5, paragrafo 1, 7, paragrafo 2, lettera a), secondo comma, e 8, paragrafi 3 e 4, della direttiva ad opera del citato decreto legislativo n. 209 del 2003.
      In particolare, la modifica di cui al comma 1, volta ad introdurre espressamente per gli operatori economici, la previsione dell'obbligo di istituire, anche per i veicoli a tre ruote, sistemi di raccolta delle parti usate asportate al momento della riparazione di tali veicoli, consentirà di trasporre correttamente l'articolo 3, paragrafo 5, della direttiva.
      Le modifiche di cui alla lettera b) consentiranno, invece, di dare corretto recepimento all'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva, in quanto prevedono l'obbligo di istituire, se tecnicamente fattibile, sistemi di raccolta delle parti usate derivanti dalla riparazione dei veicoli, come imposto dalla direttiva.
      La modifica di cui alla lettera c) è, invece, volta a dare corretto recepimento all'articolo 8, paragrafi 3 e 4, della direttiva, che prevede che le informazioni che i produttori di veicoli e dei loro componenti sono tenuti a fornire devono corrispondere a quanto richiesto dagli impianti di trattamento.

Articolo 8.

      L'articolo 8, attraverso la modifica dei decreti legislativi 26 maggio 2004, n. 153 e n. 154, e della legge 14 luglio 1965, n. 963, adegua la normativa nazionale sulla pesca alla normativa e ai princìpi comunitari, consentendo l'archiviazione delle quattro procedure di infrazione in materia di pesca attualmente pendenti.
      In particolare, il comma 1 sostituisce l'articolo 6 del decreto legislativo n. 153 del 2004 al fine di escludere la tolleranza del 10 per cento nella detenzione di esemplari sotto misura, garantendo una effettiva tutela alle specie ittiche per le quali è prevista una taglia minima della normativa nazionale, così come disposto dai diversi regolamenti comunitari che non prevedono tale tolleranza per le specie indicate, ed estende la sanzione accessoria della sospensione dell'esercizio commerciale da cinque a dieci giorni, prevista per la commercializzazione di prodotti sotto misura, alla commercializzazione di specie di cui è vietata la cattura (ad esempio datteri).
      Per tale ultima fattispecie, sebbene sicuramente più grave, attualmente non è previsto questo tipo di sanzione accessoria.
      Il comma 2 introduce la sanzione per la violazione dell'obbligo di trasmettere i dati statistici delle catture e degli sbarchi, previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo n. 154 del 2004 (procedura di infrazione n. 2001/2118). Esso prevede in particolare che la medesima sanzione sia triplicata per le fattispecie relative ai piani di protezione degli stock ittici (attualmente tonno rosso) e per la pesca fuori del Mar Mediterraneo (pesca oceanica). Al fine di rispondere alle contestazioni mosse dalla Commissione europea in particolare nell'ambito delle procedure di infrazione nn. 2001/2118 e 2007/2284, si è ritenuto di diversificare le sanzioni in funzione della specie pescata e del luogo di cattura. Tali dichiarazioni concernenti le catture e gli

 

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sbarchi assumono particolare importanza al fine di determinare lo stato delle risorse e di agevolare l'attività di controllo e di verifica sulle attività di pesca.
      Il comma 3 interviene sulla legge 14 luglio 1965, n. 963, al fine di adeguare il sistema sanzionatorio nel settore della pesca a quanto previsto dalla normativa comunitaria.
      In particolare, la lettera a) introduce espressamente il divieto di detenzione di attrezzi non consentiti, previsto da diverse norme comunitarie ma non chiaramente esplicitato nell'ordinamento giuridico nazionale, anche se riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità.
      La Commissione europea ha sempre contestato, in merito al fenomeno delle cosiddette «spadare» (oggetto della procedura di infrazione n. 1992/5006), la mancanza di un idoneo sistema sanzionatorio in linea con la normativa comunitaria e adeguato agli obiettivi della Politica comune della pesca (PCP).
       Infatti, attualmente la legge n. 963 del 1965 prevede una sanzione amministrativa per la pesca con attrezzi non consentiti, mentre per la violazione delle numerose norme che vietano la detenzione di attrezzi non consentiti bisogna fare ricorso all'articolo 2 del regio decreto 4 aprile 1940, n. 1155, che peraltro l'indirizzo giurisprudenziale dominante ritiene implicitamente abrogato per incompatibilità con la disciplina della pesca marittima dettata dalla citata legge n. 963 del 1965.
      L'inserimento di tale divieto, che trova sanzione nel nuovo testo dell'articolo 26 della citata legge n. 963 del 1965, consente di chiudere la procedura di infrazione n. 1992/5006, riguardante il controllo delle misure tecniche comunitarie relative alle reti da posta derivanti, oltre a semplificare l'attività di vigilanza e controllo.
      La lettera b) adegua le sanzioni amministrative in materia di pesca, previste dallo stesso articolo 26 della citata legge n. 963 del 1965, come sostituito dalla legge n. 381 del 1988, rendendole maggiormente dissuasive, seguendo così le indicazioni contenute nella comunicazione annuale della Commissione europea sulle relazioni trasmesse dagli Stati membri circa le infrazioni gravi alle norme della PCP commesse nel 2005.
      A tal fine, l'articolo 26 viene sostituito integralmente, introducendo anche le sanzioni amministrative per la violazione delle norme del regolamento (CE) n. 2244/2003 della Commissione, del 18 dicembre 2003, relative al sistema VMS (oggetto della procedura di infrazione n. 2004/2225), nonché per la violazione delle norme relative alla tutela di determinati stock ittici (oggetto della procedura di infrazione n. 2007/2284) e per la vendita e commercializzazione dei prodotti della pesca sportiva o a scopo ricreativo.
      Infine, la lettera c) modifica l'articolo 27 della legge n. 963 del 1965, intervenendo sulle sanzioni amministrative accessorie, al fine in particolare di sanzionare in maniera più stringente i casi di recidiva.

Articolo 9.

      La disposizione consente di adempiere ad indifferibili obblighi internazionali, conseguenti alla ratifica, autorizzata con legge 8 febbraio 1996, n. 69, degli accordi bilaterali tra la Repubblica italiana e la Federazione russa e in particolare del trattato di amicizia e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Federazione russa, firmato a Mosca il 14 ottobre 1994.

Articolo 10.

      Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 28 luglio 2006 è stata istituita, presso il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio dei ministri, una struttura di missione con il compito di attivare tutte le azioni possibili dirette sia a prevenire l'insorgere del contenzioso comunitario che a risolvere le procedure di infrazione in corso. L'azione svolta dalla predetta struttura ha portato ad una consistente diminuzione delle stesse procedure, le quali sono scese, alla fine del 2007, per la prima volta dal 2002 al di sotto della soglia delle 200 unità, e di 80 unità rispetto al momento dell'insediamento del

 

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Governo, che aveva posto tra gli obiettivi prioritari della sua politica europea la riduzione del contenzioso comunitario. In base alla disciplina vigente, la durata di tale struttura non può essere superiore a quella del Governo che l'ha istituita, con immediata decadenza all'atto dell'insediamento del nuovo Governo. Tuttavia, considerate la delicatezza e l'importanza dell'attività che la struttura sta svolgendo, in costante rapporto con gli uffici della Commissione europea, è necessario garantirne la prosecuzione in modo da assicurare il buon esito delle azioni urgenti già intraprese per la chiusura delle procedure di infrazione in corso, dalle quali - anche in ragione della cadenza mensile assunta dalle decisioni della Commissione europea in questo settore - potrebbero scaturire condanne pecuniarie onerose. Pertanto, al fine di impedire che tale attività si interrompa improvvisamente e al contempo di consentire al nuovo Governo di assicurarne la prosecuzione senza soluzione di continuità, si prevede che essa decada decorsi trenta giorni dal giuramento del nuovo Governo, ove non confermata, al pari di quanto avviene con il personale incardinato presso gli uffici di diretta collaborazione dei Ministri ai sensi dell'articolo 14, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001.
      Analoghe considerazioni valgono per le altre strutture di missione istituite presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per le quali è necessario assicurare senza soluzione di continuità la prosecuzione delle rispettive attività, sino a che il nuovo Governo non assuma determinazioni al riguardo.
      L'intervento normativo, peraltro, non comporta oneri, in quanto la copertura finanziaria era stata già assicurata per l'intero anno 2008.
      Infine, l'articolo 11 contiene norme per la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall'attuazione dell'articolo 5.